Per fare vino in sottrazione, quindi, bisogna sapere cosa togliere; per sapere cosa togliere bisogna conoscere i principi tecnici che permettono alla vite di produrre uva sana e di qualità
A quell’uva di diventare vino capace di farsi traduttore fedele della propria identità varietale e ancor più di quella territoriale.
Sia chiaro, per tecnica intendo l’insieme di scelte (anche nel non fare) e di azioni attuate da qualsiasi vignaiolo e produttore dalla vigna alla bottiglia, secondo i propri canoni produttivi (per intenderci, la potatura è da considerarsi una delle più importanti azioni tecniche come lo possono essere un travaso o un rimontaggio o qualsiasi altra operazione meccanico-fisica di cantina, quindi non necessariamente chimica).
Scambiare la negligenza per rispetto e l’approssimazione per sinonimo di artigianalità e sostenibilità è qualcosa di estremamente pericoloso per chi fa vino e per chi lo consuma. Esistono grandi vignaioli, grandi produttori e coscienziosi enologi in grado di lavorare riducendo al minimo il proprio impatto sul prodotto ma ricordiamoci che nel fare vino di “naturale” c’è ben poco partendo dall’imposizione che abbiamo dato, dapprima, alla vite chiedendole di mettersi in fila e di produrre quanto e come vogliamo antropizzandone l’utilizzo e, in secondo luogo, all’uva da essa derivante trasformandola in vino, impedendole di diventare aceto.
Competenza e consapevolezza tecnica non significano “abuso di chimica o sofisticazione”, anzi, possono e devono sempre più concorrere alla riduzione dell’interventismo e alla produzione di vini di qualità forti della loro identità e nitidi nella loro espressione organolettica, evitando l’abuso di pratiche enologiche “cosmetiche” e ridondanti che mirano a scambiare la qualità analitica e la “pulizia” con la qualità.
Da Sempre le Dinastie attenta e consapevole nell’utilizzo di questa tecnica che ha dato vita al nostro Virgoflore e al nostro Orione.